L’employee advocacy è molto più di una strategia di marketing o di HR: è un catalizzatore culturale, un acceleratore di employer branding e un moltiplicatore di fiducia. Eppure, nelle aziende italiane, anche quelle più sensibili all’innovazione HR, resta spesso un potenziale sottoutilizzato.
Se sei un HR, potresti già conoscere il concetto. Ma quanto sei sicuro di sapere davvero come attivarlo strategicamente, senza forzature e con impatti misurabili? Questo articolo va oltre le definizioni generiche e ti guida nel cuore pulsante dell’employee advocacy, con esempi pratici, errori da evitare e consigli avanzati per costruire un programma autentico e sostenibile.
Che cosa si intende per employee advocacy?
L’employee advocacy è il coinvolgimento volontario dei dipendenti nella promozione dell’azienda attraverso i propri canali personali, soprattutto sui social media come LinkedIn, ma anche in occasioni informali, eventi, conferenze o semplici conversazioni quotidiane. Tuttavia, ridurre l’employee advocacy alla condivisione di post sarebbe superficiale.
Come sottolinea il report “The Official Guide to Employee Advocacy” di LinkedIn, un programma davvero efficace non si basa su imposizioni o modelli “top-down”. Parte invece da un presupposto essenziale:
I dipendenti non sono megafoni aziendali, ma narratori credibili.
E questa differenza è sostanziale. Un megafono ripete; un narratore interpreta, seleziona, arricchisce. Il valore dell’advocacy sta proprio nella capacità delle persone di raccontare la propria esperienza unica all’interno dell’azienda, attraverso la lente della loro professionalità, dei loro successi quotidiani, delle sfide superate insieme al team. È questa autenticità che genera fiducia.
In un’epoca in cui i consumatori e i candidati sono sempre più allergici alla comunicazione istituzionale, la voce dei dipendenti è percepita come 2-3 volte più affidabile rispetto ai contenuti pubblicati dalle pagine corporate. Quando un dipendente racconta su LinkedIn perché è orgoglioso del proprio lavoro, condivide una foto dietro le quinte di un evento aziendale o parla con entusiasmo di un progetto innovativo, sta contribuendo attivamente alla reputazione dell’azienda, in modo naturale e spontaneo.
Per le HR, questo significa che l’employee advocacy non è solo una leva di comunicazione, ma un’opportunità per coinvolgere, valorizzare e responsabilizzare i dipendenti come protagonisti del brand.
Per esempio, Adobe ha creato un programma chiamato “Adobe Life” in cui i dipendenti condividono liberamente contenuti sul proprio lavoro, la cultura aziendale, le iniziative sociali. Nessun copione, nessun obbligo. Il risultato? Migliaia di contenuti organici che rafforzano l’employer brand e aumentano la reach su base quotidiana.
I veri benefici dell’employee advocacy (oltre l’engagement)
Molti articoli si limitano a citare benefici vaghi come “maggiore visibilità” o “aumento del coinvolgimento”. Ecco invece cosa può cambiare realmente quando l’advocacy viene integrata nel DNA aziendale:
- Amplificazione dell’employer branding: I contenuti condivisi dai dipendenti ricevono in media 8 volte più engagement rispetto a quelli pubblicati dai canali ufficiali aziendali. Non solo: risultano 3 volte più credibili, secondo Nielsen.
- Attraction & Retention: I candidati si fidano più delle opinioni dei dipendenti che delle job description. I contenuti di advocacy aiutano ad attrarre talenti culturalmente affini e a trattenere chi si identifica nella cultura aziendale.
- Abilitazione della leadership diffusa: Quando incoraggi i dipendenti a esprimersi pubblicamente come ambassador, li spingi a riflettere sui propri valori, sulla mission aziendale, e sulla loro identità professionale. L’advocacy diventa così anche uno strumento di sviluppo delle soft skill, come la comunicazione e il pensiero critico.
- Business development: Nel B2B, i contenuti condivisi dai dipendenti (in particolare C-level, sales, marketing e HR) possono attivare lead qualificati, rafforzare la reputazione e aprire conversazioni strategiche. In questo senso, l’advocacy diventa un’estensione del social selling.
Come costruire un programma di employee advocacy (e farlo funzionare davvero)
Uno degli errori più comuni (e più gravi) quando si implementa un programma di employee advocacy è confondere la semplice condivisione con la vera adesione. Far sì che i dipendenti postino contenuti aziendali non significa aver attivato un programma efficace. Quello che conta è la motivazione dietro il gesto: se nasce da coinvolgimento autentico o da un obbligo mal digerito. La differenza è abissale.
Ecco i pilastri fondamentali, non solo per avviare, ma soprattutto per far durare nel tempo un’iniziativa di employee advocacy.
1. Parti dalla cultura, non dai tool
Un software di employee advocacy (come EveryoneSocial o Haiilo) può aiutare, ma da solo non basta. Serve prima costruire un ecosistema culturale che premi la condivisione, l’autenticità e la trasparenza. Se i tuoi dipendenti hanno paura di esporsi o percepiscono il programma come un obbligo, non funzionerà.
Tip extra:
- Organizza momenti di ascolto e workshop interni per capire cosa i dipendenti vorrebbero raccontare, cosa li ispira e dove sentono allineamento con la cultura aziendale. Chiedi ai più restii cosa li trattiene dal farlo (paura di esporsi? mancanza di tempo? dubbi su cosa è permesso?).
- Costruisci policy chiare e inclusive: le social media guidelines devono essere semplici, comprensibili, e percepite come strumenti di tutela e non di controllo. Fornisci esempi pratici di “cosa funziona” e “cosa è sconsigliato” sui social.
- Crea una cultura che premia il racconto, non l’autopromozione: se i dipendenti vedono che condividere contenuti ha un impatto sulla propria reputazione interna e sulla relazione con l’azienda, saranno più inclini a farlo in modo spontaneo.
2. Coinvolgi i “champion” interni
Non lanciare il programma a tutta l’azienda in una volta sola. Identifica una task force di ambassador naturali e parti da questo gruppo pilota: seleziona persone autenticamente attive, motivate e rispettate nei rispettivi team. Possono essere senior o junior, manager o specialist: ciò che conta è che abbiano voglia di raccontare e una buona credibilità interna. Formali su personal branding, storytelling e uso efficace di LinkedIn. Saranno loro a innescare il cambiamento.
Insight utili:
- Fai leva sulla leadership: quando C-level e manager partecipano attivamente al programma, inviano un messaggio chiaro: “questa è una priorità aziendale”. Il report di LinkedIn mostra che le aziende con leader coinvolti attivamente vedono un tasso di adozione molto più alto.
- Il gruppo pilota come ambassador culturali: questi champion diventeranno i mentori per i colleghi meno esperti o più restii, innescando una diffusione graduale ma solida della cultura di advocacy.
3. Offri contenuti flessibili, non imposti
Il vero valore nasce dalla personalizzazione. Se il contenuto è troppo “aziendalista” o preconfezionato, perde di credibilità. Non fornire post da copiare e incollare, ma materiale ispirazionale e adattabile. Prepara un hub con contenuti pre-approvati (spunti, articoli, immagini), lasciando libertà ai dipendenti di reinterpretarli.
Best practice: usa dinamiche di gamification: badge, leaderboard, riconoscimenti simbolici nei canali interni o nella newsletter HR. Cisco ha ottenuto ottimi risultati così, favorendo una competizione sana e divertente tra advocate.
4. Misura, ottimizza, ascolta
Non cadere nella trappola dei vanity metrics. Like e condivisioni contano, ma sono solo la superficie. Serve andare più a fondo per capire l’impatto reale del programma.
Ecco le metriche avanzate da monitorare:
- Reach organica media per contenuto;
- CTR sui contenuti condivisi dai dipendenti vs. azienda;
- Job views e candidature provenienti da contenuti advocacy;
- Engagement interno al programma (es. utenti attivi, frequenza di condivisione, feedback);
- Incremento del Social Selling Index (per i sales);
- Aumento di nuovi follower e connessioni su LinkedIn.
Utilizza questi dati per adattare il programma nel tempo, fare A/B test sui contenuti e valorizzare i risultati con il top management.
Evita questi errori (frequenti ma dannosi)
Un programma di employee advocacy, se mal concepito o gestito con superficialità, rischia non solo di fallire, ma di generare l’effetto opposto a quello desiderato: scetticismo, cinismo, disimpegno. In altre parole, può diventare un boomerang. Non si tratta solo di “fare le cose bene”, ma di evitare consapevolmente ciò che le fa deragliare.
Ecco una lettura critica dei quattro errori più frequenti, e pericolosi, da evitare assolutamente.
Forzare la partecipazione: la condivisione non si ordina
L’errore più grave è imporre l’advocacy come un compito, inserendola nei KPI o nei piani individuali senza una reale comprensione del valore da parte del dipendente. Questo approccio porta a condivisioni forzate, fredde, senz’anima. E nel peggiore dei casi, mina la fiducia tra collaboratore e azienda, trasformando un’opportunità relazionale in una logica di controllo.
Cosa succede quando un dipendente posta solo perché “glielo ha chiesto il manager”? Il messaggio diventa meno credibile, il pubblico percepisce la forzatura, e il dipendente si sente usato.
Best practice: sostituisci l’obbligo con l’invito. Incentiva chi partecipa volontariamente e valorizza chi crea contenuti autentici. Non premiare solo la quantità, ma la qualità dell’ingaggio.
Usare solo contenuti “freddi”: il rischio della comunicazione senz’anima
Un altro errore è riempire le piattaforme di advocacy con contenuti corporate impersonali, come comunicati stampa, milestone aziendali autoreferenziali o articoli istituzionali senza contesto. Questi materiali non ispirano né i dipendenti né il pubblico. Il risultato? Nessuno li condivide, o peggio: vengono condivisi solo per dovere, con engagement nullo. I “contenuti freddi” uccidono l’engagement perché non toccano nessuna dimensione personale o relazionale. E l’algoritmo lo sa.
Best practice: costruisci una content strategy “a tre livelli”: contenuti personali (dietro le quinte, storie vere, compleanni aziendali, onboarding, riconoscimenti); contenuti di settore (novità, trend, analisi); contenuti aziendali, ma reinterpretati con storytelling umano (es. “Cosa significa per me lavorare su questo progetto”, “Dietro le quinte del nostro ultimo successo”).
Non supportare la crescita personale: senza empowerment, niente advocacy
Molte aziende cadono in questa trappola: si aspettano che i dipendenti siano ambasciatori senza aver mai investito sulla loro capacità di comunicare efficacemente. L’employee advocacy non è solo una strategia di marketing, è un percorso di crescita personale e professionale. Non tutti sanno scrivere post efficaci, fare storytelling o costruirsi un personal brand. E non dovrebbero saperlo “per natura”.
Best practice: organizza microformazioni su scrittura, narrazione e uso di LinkedIn; offri mentorship comunicativa; crea spazi di confronto tra advocate per imparare gli uni dagli altri.
Ignorare la formazione continua: l’evoluzione è costante
La comunicazione digitale è in continua evoluzione. Algoritmi, formati, tendenze: quello che oggi funziona domani può diventare obsoleto. Un errore grave è lanciare il programma e poi lasciarlo lì, statico. Senza aggiornamenti costanti, contenuti freschi, stimoli nuovi, anche i dipendenti più motivati si disinnamorano dell’iniziativa.
Best practice: fai formazione continua (microlearning, newsletter, case study); crea occasioni di aggiornamento ogni trimestre, ad esempio con “advocacy lunch” o live con testimonial interni; includi una parte formativa nell’onboarding dei nuovi dipendenti per far percepire l’advocacy come parte naturale dell’identità aziendale.
L’employee advocacy non è un progetto da lanciare e dimenticare. È una filosofia che richiede cura, ascolto, autenticità. Ma se coltivata bene, può diventare uno dei principali asset di un’organizzazione moderna.
In un mondo dove la fiducia nei brand è fragile, i volti delle persone valgono più di mille loghi. E in un’epoca di talent shortage, avere dipendenti che parlano bene di te senza essere pagati per farlo… non ha prezzo.
Se vuoi approfondire il tema, recupera la nostra LinkedIn Live della serie “Un caffè con l’esperto”, con la nostra Elena Gervasio, Sales Director di Eggup, e Jacopo Boscolo, Product Evengelist di Inrecruiting – Zucchetti.